domenica 31 marzo 2019

Istruzioni per l'uso: A/r



 


 "Chi l'avrebbe detto che baciando gli occhi di un uomo si possa vedere così lontano".

Alessandro Baricco, Oceano Mare


 


Capitolo chiuso. Non perdo altro tempo, non allo specchio. Non sono nemmeno scesa dal treno che già metto le cose in chiaro: «Non sono tornata per restare». Per quante volte l'ho detto, ho perso il conto. Più lo ripetevo a me, allo specchio, agli altri, e più passavano le ore, i giorni, poi i mesi e alla fine anche gli anni. E sono ancora qui. Ma se qualcuno me lo domanda, che scherzi: «Io voglio andare via». Almeno è quel che rispondo, che mi racconto. Già, perché se tante cose sono cambiate da allora, l'abitudine di raccontarmi delle storie allo specchio, quella no. Anzi. Dallo specchio sono andate in pagina e non solo su carta. Che non va tanto di moda da queste parti, oltre a costare caro a te e al pianeta; meglio l'usa e getta, l'informazione usa e getta. O in offerta speciale, prendi due e paghi uno: la dura legge del mercato. E sei una signora, ma fai anche un figurone con due giornali sottobraccio. Ad ogni passo, un brusio di sottofondo: «È una che legge». E tu, mentre acceleri il passo, pensi ai bei tempi andati... quando la carta dei giornali era considerata un materiale prezioso. A casa mia, giù Napoli dove vivevo una volta, la usavano, e forse la usano ancora, per incartare le “marenne¹” o i fritti: alzi la mano chi non conosce “il cuoppo²”? Tenersi aggiornata, era semplice: bastava andare al mercato il sabato e facevi sia la spesa che la rassegna stampa, di tutta la settimana. A casa dei miei, a Terracina dove vivo adesso, per un po' ho comprato tutti i giorni un giornale che gli altri non hanno mai pagato nemmeno quando c'era la lira, figurati un euro. D'altronde come dargli torto, era una free-press. Solo che deve esserci stato un “qui pro quo”, se non un problema di ruoli, di scambio di ruoli: io pagavo loro, ma nessuno pagava me e non ero l'unica. Non poteva durare, e infatti è finita così come era iniziata: da un giorno all'altro. Quindi, se voglio stare al passo con i tempi, prendo un caffè che il giornale lo leggo al bar. Di rassegna stampa, nemmeno una all'ombra di Pisco Montano. Peccato, che come lucida lo specchio la carta dei giornali, nessuno mai. «Cosa vuoi che sia, ci riderai su», botta e risposta allo specchio. Che, per non saper leggere e scrivere, pensò bene di trovarmi un lavoro. Per tenermi occupata? Macché, era che non ne voleva sapere di ascoltare tutte le storie che avevo da raccontare. Mi specchio, incredula, ma lui mi rassicura: «Sì, un lavoro: hai sentito bene». Ma lui vive di riflesso, non poteva saperlo che non era proprio un lavoro lavoro, ma un quasi lavoro, simile ad un lavoro, ecco un lavoro verosimile.

Non c'è da ridere: «Come lo chiamereste voi un lavoro che ti porta a scrivere di una città dove c'è gente che in piena campagna parcheggia la Vela, parla per frasi fatte, citazioni e aforismi e gira controvento con un 6x3?» Non c'è che dire: ho fatto proprio una bella esperienza. Tanto che lo specchio stenta a credermi. E per fortuna non gli racconto tutto. Come quando, al momento dei saluti, il tappo salta: non perché ci fosse di che brindare, ma perché la bottiglia era d'annata. E non solo mi prende in pieno, ma mi rimane l'amaro in bocca quando, nel voltare pagina, metto su un punto del passato e leggo: “Non hai vinto. Ritenta, sarai più fortunato”. Meglio non farsi troppe domande, una sola: qual'era delle due, “non hai vinto” e “ritenta...”, la battuta? Almeno per noi non è tempo di risposte. Mi siedo e, mentre aspetto il mio turno, immagino di fare il punto... Seh, come glielo spiego ad uno di passaggio di che parlo? Meglio lasciar stare: metto via carta e penna, le parole nella scatola... e cambio casa, di nuovo. Da qui, dalla Stazione, si può solo andare via: «Ultima fermata, si scende: binario morto», annuncia il capotreno. In stand-by, un po' confusa ma felice, vado al mare, anche se il mare non bagna più Napoli, figurati Terracina. Era di nuovo finita la carta, e che lo scrivo a fare. Il dubbio che ne facessi un uso sconsiderato, venne prima allo specchio che a me. E siccome non dormiva la notte al pensiero di dover passare il tempo, invece che a specchiarsi, a sentirmi, elaborò una piano, a prova di stampante: web-log, un blog. «Web che?», lo guardo perplessa. «Ma dove vivi? E sì che eri una bambina, ma che non te lo ricordi come si scrive un diario? Ecco, è la stessa cosa. Solo che – mi spiega lo specchio – lo fai leggere, invece che agli amici, ai contatti; e invece della carta, usi la rete. Riciclo creativo, geniale no?» «Credi...», farfuglio mentre mi specchio. «Invece di parlare ad uno specchio, vai su... Che aspetti?» Ma anche così di tempo per non scrivere una storia che avesse un inizio, ma che invece non finisce mai, ne avevo fin troppo. Non come prima quando c'era da andare in stampa. E il tempo per rileggere non bastava mai, figurati per leggere... Leggere? Sì, l'idea stavolta era venuta a me che leggere allo specchio non gli viene facile. Anche se non lo ammetterebbe mai, per lui sono io che scrivo al contrario, allo specchio. Non restava che iniziare, da una storia sospesa. Da Don Giovanni, per esempio. Non un “Don Giovanni” qualsiasi, ma il “Don Giovanni” per eccellenza. «Subito a pensare male, che avete capito: parlo di un libro, del Don Giovanni. Si tratta sempre dell'amore, avete ragione». E infatti, come “i grandi amori si annunciano in modo preciso che appena lo vedi dici: ma chi è questo stronzo?”, anche il “Don Giovanni” fece la sua figura il giorno dell'incontro. «Amore a prima vista», mi suggerisce lo specchio, e come il primo amore non si scorda mai, così la prima volta... in libreria: un colpo di fulmine, tante storie per giocare. Non è stato subito però. Che non è stato facile, quanto partire, tornare. Quando lo incontro, è già un po' che giro da queste parti: non più a vuoto come i primi tempi, e non solo a piedi, ma anche in bici. É in un Circolo, di idee, che, mentre do una mano, anche due a volte, a quattro amici, di tanto in tanto però, un giorno, in bella mostra, eppure in disparte come se stesse in un angolo, al buio, al riparo, trovo “Don Giovanni”. Distante, lo (s)guardo. Poi senza dare nell'occhio, mi avvicino. E lo sfoglio. Chiedo in giro una, due, tre volte, nel caso fosse di qualcuno. Ma sembra che nessuno faccia caso a me, sono tutti presi da una festa o qualcosa di simile. Così per una settimana mi tengo a distanza, di sicurezza. Finché una sera mi giro e siamo solo io e lui. Non resisto, lo voglio. É allora che mi allontano con lui. Se solo ci ripenso, divento rossa. Per cosa poi, non certo per vedere come andava a finire: è finita prima di cominciare, la storia. Non sono nemmeno arrivata a metà, del libro. Ora, che è tutto diverso, nel taglio dei capelli e non solo, e che di tempo ne ho quanto ne voglio, l'ho perso di vista, complice qualche trasloco di troppo, alla mia età. Faccio per cercarlo, mi giro e non lo trovo. Non è al suo posto. Strano, in libreria c'è scritto “non toccare”. Devo averlo messo nel cassetto, dei sogni. Vado, ma ne trovo altri, non quello: inevitabile, non era previsto. In garage, al sicuro in qualche scatolone, non c'è. La soffitta non ce l'ho; sarà in giro insieme alle altre storie a metà, quelle da cui ogni tanto entro ed esco come dalle porte girevoli. E che lascio in sospeso, appena prima di partire. Ad ogni viaggio, erano lì a farmi compagnia: pronti, via... alla Ferrovia. Altri tempi: ora torno a piedi da me. Non a casa. Giù il sipario, via la maschera: non sei quella che... vedi nello specchio. Aria, una boccata d'aria. Esco e passo la notte in bianco; solo che, invece di passarla a leggere, alterno musica e parole. Nelle notti bianche i pensieri fanno tanto rumore che svegliano tutta la città, la mia città. Dove sei, dove sei, dove sei... qui, non me ne sono mai andata. Lontani, ma vicini: vado via. Metto le cuffie e in cambio di una storia da leggere, ne trovo una da scrivere, riscrivere. Chiudo gli occhi, ogni tanto. Solo adesso ho capito: era solo un sogno, ad occhi aperti. Di un'estate fa. Invece no, lo metto nero su bianco, in una pagina bianca, ancora per poco. É tutto in una penna: sì scrivo, in levare. E battere su una tastiera, come musica. Cammino, piano: è meglio camminarci su, come con i crampi così con le idee fisse. Niente, se non un colpo all'anima: l'ho perso. Anzi, ho lasciato che se ne andasse in giro da solo, chissà con chi, chissà chi ti dorme accanto. Lo sapevo che non era per me, il bookcrossing. Vado in libreria, pago il conto ed esco con Don Giovanni: una storia per grandi e piccini, da salvare. Dell'altro, non c'è traccia se non un gioco di parole in una storia, dentro me. Lo stomaco si chiude, senza ragione: niente paura, lo faccio per me. Non torno sui miei passi. Istruzioni per l'uso: fragile. Da qui, ricomincio.







¹     Marenn”: il pranzo dei muratori


²     “Cuoppo”: contenitore da asporto a forma di cono di carta